La copertina de ‘Il giorno delle donne’Nell’ultimo giorno della sua vita, il 12 maggio 1933, Gyula Krúdy dovette anche subire le rampogne di un funzionario dell’energia elettrica perché gli mancavano i soldi per pagare le bollette. Si coricò nel letto e non si risvegliò più, abbandonato dal cuore. Forse anche dalla seconda moglie, che un mese dopo si risposò. Eppure era stato il massimo cantore della Belle Epoque budapestina. Fama, avventure, dolce vita. Márai, più giovane, lo considerava un tale maestro di stile che lo risuscitò in un romanzo. Non morì giorno in cui Krúdy non avesse scritto qualcosa: prendeva piume d’oca, inchiostro lilla, e raccontava storie per salvarle dall’apocalissi della Duplice monarchia con la stessa lucidità di Zweig o Roth, e con la leggerezza di chi sa che la vita non è cosa seria.
Il giorno delle donne, ora tradotto dal Cavallo di Ferro, è uno dei suoi romanzi più celebri. Uscito nel 1919, si intitola in originale Il premio delle donne, come il riconoscimento che in una clinica viene dato alla puerpera che ha partorito il primo figlio della giornata. Protagonista è János Czifra, impresario funebre di mezza età, sempre onesto e morigerato, perché ha visto troppi cadaveri e troppi pianti per cedere alle illusioni del vizio. E anche se non ha mai creduto nei fantasmi, si trova tra i piedi prima il diavolo, che lo accompagna a un banchetto nuziale, poi il proprio doppio, «Il Sogno», che lo scorta tra i tuguri delle prostitute, a spasso nel tempo, per le strade di Budapest. Nella filza di incontri con creature di carne o di sogno spicca Natalia, fanciulla romantica e sfortunata, che muore di parto e lascia la sua neonata da allevare all’impresario.
I romanzi di Krúdy non hanno trame, ma decine, centinaia di personaggi che vanno e vengono come carte nelle mani dell’indovino o come i capricci dell’inconscio che Freud sta esplorando nell’altra capitale dell’impero. Grandi aristocratici e solerti sarti, giornalisti e biscazzieri, contesse sdegnose e puttane romantiche, Krúdy racconta l’intera fauna umana senza gerarchie, ricchi e poveri, giovani e vecchi, santi e mascalzoni, tutti evanescenti come miraggi, tutti così somiglianti nei peccatucci e nei desideri proibiti sotto la crosta della rispettabilità. E soprattutto narra l’amore che scombina la vita, che spinge uomini e donne a cercarsi, tradirsi, bisbigliarsi finte promesse, tormentarsi di gelosia, in un eterno ritorno, talmente futile da essere l’unica cosa seria insieme alla morte. Era indulgente, Krúdy, con le debolezze umane, in fondo lui stesso era figlio d’una passione impropria. Suo padre, nobile e avvocato, aveva sedotto una semplice contadina, e prima di sposarla ci fece insieme dieci figli. E comunque, dopo le mattanze in trincea, che senso aveva scandalizzarsi se la moglie del salsicciaio mugola nel sonno pensando all’amante?
Gyula Krúdy era nato nel 1878 a Nyíregyháza, cittadina di betulle nel Nord-Est dell’Impero. Pubblicò il primo racconto a 14 anni. E non smise più. Tremila novelle, cinquanta romanzi, articoli di giornale. Possedeva una lingua meravigliosa, arricchita da un lessico immenso che s’estendeva dalla botanica agli utensili dei contadini. Sapeva descrivere Francesco Giuseppe o i briganti della pianura che rendevano la puszta simile al Far West. Arrivò a Budapest nel 1896, un anno simbolico. Perché l’Ungheria festeggiava i mille anni di regno e, dopo secoli di guerre perdute e di invasioni straniere, era finalmente potente, quasi alla pari con i fratelli austriaci. L’intera capitale si rifece l’immagine, s’ingioiellò di monumenti e palazzi liberty, nacque la prima metropolitana dell’Europa continentale. Da tutto il mondo giunsero donne esotiche per rendere felici i gaudenti che sciamavano nelle notti spensierate, persino soubrette pakistane e ballerine di colore dalla Florida. L’euforia rasentava la megalomania, il Parlamento appena costruito era il più grande del mondo, anche se a votare erano pochissimi.
Krúdy si fece strada, all’inizio, più come personaggio che come scrittore. Avventure galanti, duelli, carte e cavalli, gulyás e champagne. Viaggiò moltissimo, sempre all’interno dell’Austria-Ungheria, il suo mondo infinito finiva lì. Sentiva la modernità, godeva lo spirito dei tempi, ma voleva conservare nella scrittura la Kakania che aveva conosciuto e che stava tramontando. Cercava il tempo perduto come Proust, e sperimentava il flusso di coscienza prima di Joyce e Proust. Ai tempi della rivoluzione sovietica del ’19 scrisse per i rossi – non era comunista, la politica era troppo sciocca per interessarlo, semplicemente amava la giustizia, anche per i poveri – e sotto il fascismo di Horthy ebbe problemi. Poi diventò un mito nazionale, un modello letterario per ogni romanziere, fino al Nobel Kertész o a Esterházy.
Nel 1918 la Duplice Monarchia crollò. L’Ungheria fu pesantemente punita, ridotta a un terzo del suo territorio. Le violenze, la guerra civile, le esecuzioni continuarono oltre la fine del conflitto. Ma Krúdy non riusciva a rinunciare al delizioso piacere della nostalgia. Ragionare ironico e lieve sulle pene d’amore di quella folla che riempie le pagine del Giorno delle donne era confortante, non per deridere gli esausti innamorati, ma per capire che la vita non va presa tragicamente, come se i disastri capitassero solo a noi. Basta leggere un po’ di Zarathustra nel tempo libero e ripensare ai più bei piedini femminili di Pest, e tutto diventa più accettabile. Persino la fine del mondo. In fondo siamo soltanto uomini, neanche le sciagure sono così gravi.
Autore: Gyula Krúdy
Titolo: Il giorno delle donne
Edizioni: Cavallo di Ferro
Pagine: 223